lunedì 8 aprile 2024

La guerra che uccise Achille

Finito di nuovo in uno di quei periodi nei quali non mi interessa più nulla che sia successo dopo il crollo dell’Impero Romano d’Occidente, ho letto “The War That Killed Achilles” di Caroline Alexander.

Si tratta di uno studio dell’Iliade basato sulle conoscenze storiche (sia del periodo supposto della guerra, che di quello di stesura dell’opera), su testi e tradizioni contemporanee e antecedenti e sulla mitologia greca e ittita (la città di Troia era feudo dell’Impero Ittita).

Centrale è la figura di Achille, figlio di Peleo e della dea Teti. E qua ho trovato la cosa più interessante.

Achille è una figura anomala nell’epica antica. È figlio di Peleo, Re di Ftia in Tessaglia, regione ai confini della Grecia associata con streghe e luoghi selvaggi. Peleo era noto per le sua prodezze in battaglia e per accogliere nel suo regno persone in fuga dalla legge, criminali e profughi di varia provenienza. Achille è figlio di Teti, nereide discendente di Oceano; è una divinità alla quale molti altri dei devono sempre dei favori perché lei li ha aiutati nei momenti difficili.

Achille cresce nella regione più stregonesca della Grecia, e ha come tutore Chirone, che gli insegna l’arte medica.

Mettendo tutte queste cose assieme viene fuori Achille come figura sciamanica, anomala rispetto a tutti gli altri eroi che partecipano alla Guerra di Troia. E da altre fonti risulta che i suoi compagni Mirmidoni erano un branco di lupi mannari. Interessante, no?

(sembra che le parti inerenti Achille siano anche quelle più recenti. Chiunque (Omero?) abbia dato forma finale all’Iliade ha avuto un colpo di genio aggiungendo questo eroe).

È Achille stesso a chiedersi che ci faccia lì. Lo dice chiaramente: questi Troiani non mi hanno fatto niente, non ho niente a che fare con la Elena e Menelao e Paride, rischio di farmi ammazzare e prendo anche pesci in faccia da Agamennone?

Achille viene definito “Pelìde” in tutta l’Iliade, ma diventa il vero figlio di suo padre non combattendo eroicamente, ma solo quando accoglie con pietà Re Priamo, venuto a reclamare il corpo del figlio Ettore da lui ucciso – proprio come suo padre dava rifugio a fuorilegge e nemici.

È una nota di triste umanità con la quale finisce l’Iliade. NON finisce quando Achille uccide Ettore vendicando la morte del suo compagno Patroclo (e qua sta una delle tanti innovazioni di Omero rispetto alle opere epiche precedenti), ma con una serie di funerali (di Patroclo e di Ettore), e un Achille che pur avendo confermato se stesso come eroe si trova a cenare da solo, senza il suo compagno al suo fianco e, vedendo Priamo, scoppia a piangere pensando a suo padre lasciato solo in Ftia.

L’Iliade non glorifica la guerra, anche se, fa notare l’autrice, molte volte e in maniera capziosa è stata forzatamente interpretata in questo modo.

La nota finale sulla Guerra di Troia la troviamo nell’altra opera di Omero, l’Odissea, dove Ulisse (in incognito) ascolta le storie dell’assedio e:


Cosí dunque cantava l’insigne poeta. Ed Ulisse
struggeasi; e il pianto giú dal ciglio bagnava le guance.
Come una donna piange protesa sovresso lo sposo,
che per la sua città, pei suoi cittadini è caduto,
per tener lungi il giorno fatal dalla rocca e dai figli:
essa che cader morto lo vide, e dar gli ultimi guizzi,
amaramente piange, protesa sul corpo; e i nemici
di dietro, con le lance, le battono gli omeri e il collo,
e via schiava l’adducon, che soffra fatiche e dolori;
e a lei pel piú doglioso tormento s’emacian le guance:
cosí bagnava Ulisse di misero pianto le ciglia.

(traduzione del Romagnoli)

sabato 16 marzo 2024

How Language Began

How Language Began di Daniel Everett è un libro sull’origine del linguaggio.

L’autore, dopo una giovinezza burrascosa, si è convertito al cristianesimo ed è andato in Amazzonia a convertire la popolazione Piraha. Ne ha imparato la lingua, e dopo una crisi religiosa è diventato ateo, antropologo e linguista.

È un sostenitore della teoria “continua” dello sviluppo del linguaggio negli ominidi, ovvero una serie successiva di aggiunte e prassi che si sono solidificate nel corso di millenni fino a formare il linguaggio come lo conosciamo oggi.

Questo pone Everett in opposizione alla teoria “discreta” del più noto Chomsky, cosa che gli ha anche procurato un certo numero di nemici e hater online – sembrerebbe impossibile ma simili cose succedono anche in linguistica.

La critica che Everett muove a Chomsky è che quest’ultimo tratta il linguaggio come un superpotere, che gli homo hanno acquisito a un certo punto della loro evoluzione grazie a una mutazione genetica. Un po’, prende in giro l’autore, come degli X-Men.

Everett rifiuta la concezione Chomskiana che il linguaggio sia solo una grammatica, infatti lo vede più come uno strumento culturale che si è andato affinando coll’evolversi della cultura umana.

Onestamente, il libro è godibile anche senza entrare nei dettagli della sanguinosa diatriba continuità/discrezione che ha mietuto molte vittime su entrambi i fronti di questa guerra civile tra linguisti. Vediamo la nascita dei primi ominidi, le imprese dell’homo herectus che sarebbero state impossibili senza una forma di comunicazione, il funzionamento del cervello e degli organi che permettono di concepire e usare il linguaggio.

Purtroppo gli eoni passati tra quando i primi ominidi hanno iniziato a parlare e oggi rende molte di queste considerazioni solamente teoriche. I fossili non danno molte indicazioni sulla struttura del cervello (e della laringe) dei nostri più lontani progenitori e molto è lasciato alla speculazione.

Vita e morte delle grandi città americane

Penso che le città siano come degli organismi viventi, e alcuni tra i più interessanti che si possano trovare sul nostro pianeta. Jane Jacobs, antropologa e scrittrice, condivide questa mia visione delle città.

Il suo saggio più famoso, Death and Life of Great American Cities (del 1961), prende in considerazione le più grandi città americane, e si chiede come mai alcune siano vivaci mentre altre sviluppano slums e zone morte.

I concetti espressi da Jacobs riguardano sopratutto le città americane, anzi per la maggior parte sono derivati dall'osservazione dei quartieri di New York, e quindi potrebbero non applicarsi ovunque, ma sono comunque degli strumenti con i quali studiare i complessi urbani.

Qual è la caratteristica di una Grande Città? Per Jacobs è l'incontro continuo di persone sconosciute (stranieri, turisti, ma anche condomini). L'autrice quindi inizia le sue considerazioni dal marciapiede, il vero luogo nel quale si hanno gli incontri non voluti con gli sconosciuti. Non la strada dove passano le automobili o l'interno degli edifici, ma proprio i marciapiedi.

Mettendo al centro il marciapiede dove l'abitante cammina, Jacobs mette in secondo luogo il ruolo dell'automobile: per lei traffico e problema di parcheggi sono problemi derivati dalla cattiva gestione della vita sul marciapiede. Idea che già la pone in contrasto con gli architetti e urbanisti dell'epoca che pensavano di sviluppare la città avendo il traffico in mente come prima cosa.

Il marciapiede, come le teorizza Jacobs, deve essere un posto sicuro perché sorvegliato a vista da chi lo vive (proprietari di negozi e gente che si affaccia alla finestra); deve essere vissuto continuamente, ovvero ci devono essere abbastanza attività da garantire un flusso di persone dalla mattina alla sera: Jacobs è favorevole ai rioni a più destinazioni d'uso, dove ci sia sempre qualcosa aperto che attiri delle persone. Le persone che vivono il marciapiede devono poter godere allo stesso tempo della privacy e della possibilità di connessioni che questo offre. Infine il marciapiede deve essere un posto sicuro dove i bambini possano giocare.

Contrariamente all'abitudine italiana il centro della città per Jacobs sono i marciapiedi, e non le piazze, che l'autrice pone assieme ai parchi pubblici un gradino sotto nella scala di preferenze.

Un marciapiede che è una comunità di persone con un forte interesse a mantenere l'ordine e la sicurezza. Ma come si raggiunge questo scopo?

Jacobs propone quattro strumenti urbanistici che secondo lei devono essere usati assieme:

1) I quartieri devono avere più di una funzione primaria. Ci deve essere più di un motivo per le persone per visitare un quartiere, e il quartiere deve attrarre persone diverse (per ceto, lavoro, etc...) per motivi diversi. Una molteplicità di funzioni primarie porta allo sviluppo di una sana rete di funzioni secondarie (per esempio ristoranti per il pranzo per gli impiegati degli uffici, ma che possano essere attivi per servire la cena a chi va a teatro).

2) Gli isolati devono essere piccoli, ovvero la strada deve essere interrotta quanto più possibile da incroci con altre strade. Questo permette al pedone una maggiore varietà di scelta di percorsi, ed evita di isolare due strade, cosa che rischia di generare piccoli mondi a se stanti ed economicamente chiusi. Attività secondarie su una strada possono così servire gli utenti di più attività principali.
Più incroci rende il traffico più lento cosa che secondo l'autrice sfavorisce l'uso dell'automobile.

3) Ci devono essere edifici vecchi, o almeno nello stesso rione devono esserci edifici di varie età. Edifici più vecchi costano di meno permettendo il sorgere di più attività e aumentare quindi i motivi per vivere il quartiere. Qua è forse dove la Jacobs ha sbagliato di più, perché sul lungo termine edifici vecchi aumentano di valore respingendo i ceti più poveri. È un fenomeno complesso: se volete approfondirlo leggete il capitolo a esso relativo nel libro.

4) Nel quartiere ci deve essere una concentrazione sufficientemente alta di persone da sostenere economicamente i punti sopra. Qua il discorso fatto nel libro temo sia applicabile solo agli Stati Uniti, anzi probabilmente solo a New York.

Jacobs ha pubblicato questo libro nel 1961, e molte cose sono cambiate da allora. Non tutti i concetti espressi sono ancora applicabili, ma su tante cose l'autrice ha avuto ragione. Per esempio, ha previsto il degrado totale di Detroit che sarebbe avvenuto nei dieci anni successivi.

Sopratutto, il libro è un attacco contro un certo tipo di urbanistica calato dall’alto, con progetti che poco tengono conto delle vere esigenze e dei veri comportamenti delle persone.

mercoledì 31 gennaio 2024

La Nave dei Folli

Può l’arte ispirare l’arte?

Noi del CIF abbiamo provato a rispondere a questa domanda universale con un lavoro multimodale (e non multimediale).

Sei racconti ai limiti dei generi per rappresentare le oscure pulsioni che si agitano negli abissi dell’animo umano. E quale miglior soggetto de “La nave dei folli” di Hieronymus Bosch?

Con questo ultimo lavoro, a suo modo sperimentale, il “Collettivo Italiano Fantascienza” cambia pelle e si trasforma in “Collettivo Immaginario Fantastico”, per urlare a gran voce la mutata necessità di percorrere nuove strade espressive, ai confini del fantastico.

Nel libro, in uscita  per Delos Books, non trovate solo racconti ma anche contributi “diversi” per ampliare gli orizzonti di fruizione.

Grazie di cuore agli autori e alle autrici che hanno creduto in questo progetto: Emiliano Maramonte, Simonetta Olivo, Axa Lydia Vallotto, Lorenzo Davia, Maico Morellini, Damiano Lotto e Roberto Furlani e, naturalmente, l’editore, Silvio Sosio per averci supportato e sopportato.

Emiliano Maramonte ha avuto l’onore di coordinare e supervisionare la lavorazione.

Contiene il mio racconto "La Nave dei Morti", ambientato a Thanatolia.

Link per l'acquisto su Delos Store e Amazon.

giovedì 25 gennaio 2024

Starboard Wine

Starboard Wine è stato pubblicato nel 1983 ed è una raccolta di saggi e lettere scritte da Samuel Delany nella seconda metà degli anni ‘70 riguardanti la letteratura di fantascienza.

Il sottotitolo è More Notes on the Language of Science Fiction, rendendo questo libro una specie di sequel o aggiornamento del volume del 1977 intitolato The Jewel-Hinged Jaw: Notes on the Language of Science Fiction. Inoltre i saggi sono stati scritti nello stesso periodo in cui Delany scriveva la sua monografia sul racconto Angouleme di Thomas Disch (The American Shore). In Starboard Wine i riferimenti a questi due testi sono numerosi.

I saggi riguardano vari aspetti della fantascienza, dalla sua storia al suo futuro ai profili di alcuni autori che Delany riteneva notevoli.

Delany non crede, contrariamente a molti, che la fantascienza sia nata con Frankenstein di Mary Shelley, ma con le riviste degli anni 20 e 30 di Gernsback . Due sono le motivazioni portate a sostegno di questa sua tesi. La prima è che il romanzo non si discostava come temi e stile da altri romanzi dello stesso periodo che non sono riconosciuti come fantascienza. La seconda è che tra i vari testi del 1800 riproposti dalle medesime riviste non compare Frankenstein, mentre appaiono altri precursori quali Wells e Verne.

L’unicità della fantascienza, sostiene Delany, si è fatta notare in quegli anni. Ma in cosa consiste questa unicità? Delany confronta fantascienza e letteratura, partendo da domandi quali: La fantascienza è letteratura? Delany sostiene di no – fantascienza e letteratura si leggono in maniera diversa.

"I prefer to see the differences between science fiction, fantasy, and mundane fiction largely as the differences in the conventions, interpretations, questions, expectations, and responses the various texts encourage the reader to bring to the reading"

Delany vede la fantascienza non come un genere letterario ma come un protocollo con il quale leggere certi testi (non necessariamente testi di fantascienza, come Cheap suggerisce di fare ai suoi studenti). È una lingua particolare dove le cose hanno significati leggermente diversi da quelli che intendiamo nella letteratura quotidiana (“mundane”). Ed è proprio in queste differenze tra l’ambientazione descritta nella fantascienza e il nostro mondo reale che secondo Delany sta la forza della fantascienza. Mentre ogni frase che si può trovare in un testo di “mundane fiction” può avere ancora senso se si legge in un testo di fantascienza, non vale il contrario: questo è in indizio che non si può includere la fantascienza nella letteratura, ma che il loro rapporto è più complicato.

"The writer of mundane fiction tells a story set against a more or less vividly evoked section of the given world... and these conventions... have far more to do with other works of fiction than with anything "real". The SF writer, however, creates a world"

C’è il resoconto di un esperimento interessante, dove Delany legge parola per parola un racconto di fantascienza a una persona che non ama, capisce e apprezza il genere, per studiare momento per momento cosa passi nella testa del lettore di letteratura “seria”. È un approccio al testo lettera per lettera che non si vede spesso e dà dei risultati interessanti.

"Science fiction is not about the future; it uses the future as a narrative convention to present significant distortions of the present"

Cinque saggi sono dedicati a Robert Heinlein, Joanna Russ, Theodore Sturgeon e Thomas Disch (Disch I e Disch II), dove vengono messi in rilievo pregi e difetti di questi quattro autori. Sebbene separato dal pensiero politico, Delany apprezza Heinlein per il modo con il quale ha creato e fissato i tropi della fantascienza, dal viaggio nel tempo all’esplorazione spaziale.

Quando Delany scrisse Starboard Wine la fantascienza scritta era in pieno boom con un aumento esponenziale dei titoli pubblicati rispetto agli anni precedenti. Nei saggi troviamo un sano ottimismo sul futuro del genere, sostenuto da una solida base teorica che fa riferimento ai teorici francesi (soprattutto Derrida) e dove la fantascienza viene vista come un linguaggio e, di conseguenza, qualsiasi studio del genere diventa uno studio della sua grammatica e delle sue regole linguistiche.

È un testo di 40 anni fa e molto probabilmente molte tesi sono state superate dalla critica dei decenni successivi, ma resta un punto fondamentale per capire la storia della fantascienza e la sua evoluzione.

martedì 12 dicembre 2023

Milano di Merda

Milano di Merda di Alessandro Kresta Pedretta: vita da drogati a Milano, fine anni ’90. Qualche anno prima (andavo alle medie) abbiamo fatto una serie di incontri con varie autorità sul tema della tossicodipendenza. Avrebbero dovuto farci leggere questo libro, piuttosto - avrebbe salvato forse la vita a un paio di compagni di classe.

Quello che mi ha colpito è la quantità di tempo che questi drogati passano all’aperto. Probabilmente voi siete più smaliziati di me e non trovate la cosa strana, ma io non ci avevo mai pensato.

È una vita di strada vissuta tra gli edifici, o negli interstizi urbani dimenticati (la scala di un accesso al metro chiuso, una panchina in una parco, un tratto di terreno abbandonato). Risulta una geografia di Milano al contrario, un negativo con i vuoti riempiti di attesa (e l’autore mette subito in chiaro che il lavoro del drogato è quello di attendere) e i pieni inaccessibili, o solo sagome viste da lontano.

C’è questo aneddoto su due spiagge di un’isola delle Hawaii, una sulla quale si spiaggiano i cadaveri annegati delle persone ricche e un’altra sulla quale arrivano i corpi dei poveri. Ricchi e poveri hanno masse diverse e le maree setacciano e separano per peso i corpi.

Questo aneddoto mi è venuto in mente leggendo come Milano, setaccia e filtra le persone, e che ci sono sempre dei “punti di calma” dove il tossicodipendente ritorna, periodicamente.

La città come filtro: e l’autore ci mostra l’immagine di un asfalto (interfaccia tra il mondo di sopra e il sottosuolo, ma simbolo che rimanda ad altre interfacce sociali e culturali) che assorbe sudore, lacrime, sangue, escrementi, piscio dai suoi abitanti, dove nessun dolore va perduto e nessuna degradazione viene dimenticata.