mercoledì 25 giugno 2014

L'evoluzione del design delle astronavi nella fantascienza - Gli Anni '60

Dopo la pausa finlandese, riportiamo in vita questo blog con la terza parte del mio lungo trattato sull'evoluzione del design delle astronavi nella fantascienza. Dopo le origini e gli anni '50, siamo arrivati agli anni 60, il decennio della conquista della Luna.

È ormai tempo che i due modelli precedenti, il razzo e il disco volante, lascino spazio a nuove estetiche e nuovi design. Le opere di fantascienza destinate maggiormente a influenzare il modo con cui le astronavi vengono immaginate sono Star Trek, 2001: Odissea nello Spazio e le serie televisive di Gerry Anderson.

Iniziamo da Gerry Anderson. Il nostro uomo diventa famoso negli anni '60 per i suoi show a base di marionette, per realizzare i quali aveva inventato una tecnica speciale nota come Supermarionation; ma marchio di fabbrica delle sue serie sono anche i modelli di velivoli che vengono adoperato dai protagonisti. Sono velivoli colorati, altamente tecnologici (almeno per gli standard dell'epoca), ma sporcati e fatti apparire come usati in una maniera unica che li rende realistici. È una tecnica che era stata adoperata in passato per invecchiare modelli di treni e automobili, e stranamente solo negli anni '60 si inizia ad adoperarla sui modelli di astronavi. Sembra che solo in quegli anni ci si renda conto che un'astronave può essere vecchia.

Gli ideatori di queste astronavi sono gli esperti di effetti speciali della scuderia di Anderson: Brian Johnson, Derek Meddings, Reg Hill e Mike Trim. Abbiamo il Fireball XL5 (dall'omonima serie del 1962), che contrariamente a tutti i razzi precedenti non decollava verticalmente ma orizzontalmente tramite una rampa di lancio, e per il quale si ispirarono al razzo sperimentale, mai realizzato, HOTOL. Un razzo un po' più convenzionale è il Thunderbird 3 (ideato da Derek Meddings  per la serie Thunderbird del 1965), al quale sono comunque aggiunti dei propulsori e delle ali che lo rendono particolare.
I modelli prodotti dalla "fabbrica Anderson" hanno talmente successo che Stanley Kubrick arruolerà Brian Johnson per alcune creazioni di 2001.



A sinistra, il Fireball XL5. A destra, l'HOTOL

Il Thunderbird 3


Star Trek (1966) nasce dalla mente di Gene Roddenberry, che ha le idee chiare riguardo il tipo di astronave che vuole: "niente pinne, niente ali, niente scie di fumo, niente fiamme, niente razzi". Il compito di creare l'Enterprise e accontentare Roddenberry toccò a Matt Jefferies, che decise di prendere un approccio pratico al problema.

Le superfici dell'Enterprise erano lisce in quanto tutta la strumentazione si doveva trovare all'interno della nave. I gruppi propulsori (le cosiddette gondole a curvatura) furono poste lontano dal corpo principale della nave, che dopo diversi tentativi assunse la forma a disco.

Curiosamente, il risultato finale è una somma del design dei razzi (le gondole a curvatura) e dei dischi volanti (la sezione a disco). 

Le superfici sono grigie, immaginando Jefferies che non ci sarebbe stata necessità di colorare le astronavi. Gli interni meriterebbero un discorso a parte, si nota qui soltanto che i corridoi sono resi molto spaziosi per motivi di gestione delle telecamere mentre gli interni grigi venivano illuminati da strane tonalità di verde e rosso. Forse non avevano ancora molta pratica con la TV a colori. È un'astronave costituita da semplici geometrie: dischi, cilindri e parallelepipedi.



Altre foto dell'Enterprise, perché sì.

Curiosamente, nell'universo di Star Trek, e la cosa vale anche per le serie successive, gli esseri umani sembrano essere gli unici che viaggiano a bordo di dischi volanti (a esclusioni dei Romulani), mentre i velivoli alieni manifestano una notevole varietà di forme.

Con il capolavoro di Stanley Kubrick del 1968 si passa ad un altro livello di ideazione e rappresentazione dell'astronave, mostrando un futuro realistico. Sempre attento al dettaglio e al realismo, l'astronave Discovery viene costruita basandosi sulle più solide basi scientifiche. Vengono infatti reclutati come consulenti scientifici tantissimi esperti provenienti dalla crema delle industrie statunitensi (la NASA, la General Electric, la Grumman Aircraft, l'IBM, e i Laboratori Bell, tanto per dirne alcune).


La sezione anteriore è sferica in quanto è la forma che racchiude maggior volume a parità di superficie: non per niente versioni dell'Enterprise con sezioni sferiche erano state ideate e pensate da Matt Jefferies, solo per poi essere scartate. Sulla Discovery una lunga sezione centrale allontana quanto più possibile la parte abitativa dai motori atomici. La versione originale prevedeva delle ali, necessarie per dissipare il calore prodotto dai reattori nucleari, ma questo particolare fu scartato in quanto secondo Kubrick un'astronave non poteva avere delle ali.



Alcuni dei design originali della Discovery. Da notare le ali...


Aumenta anche il dettaglio delle superfici, che si presentano con gibbosità e irregolarità, dette wiggets. Questo è dovuto alla modalità di costruzione del modello, il cosiddetto kitbashing, che consiste nell'utilizzare pezzi di varia provenienza per realizzare un modello nuovo, ottenendo così astronavi con alto grado di dettaglio superficiale, in contrasto con i vascelli lisci e lucidi delle decadi precedenti. Sebbene non sia stato il primo film a utilizzare il kitbashing (suo uso viene riportato fin dagli anni '50), 2001 è stato il film che ha reso popolare questa tecnica, che verrà utilizzata fino all'introduzione della computer grafica negli anni '90.

Tra le astronavi apparse in 2001, ricordiamo lo shuttle della Pan Am Orion III (ispirato al bombardiere orbitale Sänger), la stazione spaziale V (derivata da un design apparso sulla rivista Collier nel 52), lo shuttle Aries IB (basato sul modulo di atterraggio Apollo).



Lo shuttle della Pan Am Orion III e il suo ispiratore, il bombardiere orbitale Sänger


La Stazione Spaziale V e la sua ispiratrice, apparsa sulla rivista Collier




Lo shuttle Aries IB... non serve che vi mostro il modulo Apollo, vero? Non siete messi così male, spero!


Concludendo abbiamo negli anni '60 un maggiore interesse da parte dei designer e degli artisti a come un'astronave potrebbe essere fatta veramente, sia cercando di immaginarla razionalmente, sia aggiungendo dettaglio al modello stesso. Tale interesse ovviamente è collegato a quello presente all'epoca per l'Impresa Spaziale che porterà alla conquista della Luna nel 1969.

E finisce qui il discorso sugli anni 60? Assolutamente no! Solo i Jetsons meriterebbero un articolo a parte... per non dire di tante altre serie fantascientifiche che non ho nemmeno citato. Per questa volta saltiamo, e il prossimo articolo sull'evoluzione delle astronavi riguarderà direttamente gli anni '70.





mercoledì 26 febbraio 2014

La Piave: Prima Guerra Mondiale Steampunk

Nuova settimana, nuovo ebook. Questa volta siamo tornati su Diego Bortolozzo, del quale abbiamo letto La Piave.

Si tratta di un breve racconto di storia alternativa steampunk, dove italiani e austriaci si combattono nel 1827 con armi alimentate a vapore e velivoli aerei. Lo scenario nel quale è ambientato La Piave è preso dall’immaginario della Prima Guerra Mondiale, e già qui mi chiedo come mai l’autore abbia deciso di ambientare la storia un centinaio d’anni in anticipo.

Nulla di male, per carità, ma credo che se il Bortolozzo avesse scritto una storia della Grande Guerra, senza orpelli ucronici o retrofuturistici, avrebbe raggiunto comunque il suo scopo.

Forse vi ricorderete della recensione di Operazione Tifone, dello stesso autore, dove scrivevo che “Il Bortolozzo passa con disinvoltura dalla narrazione delle gesta dei singoli soldati al quadro generale internazionale, mantenendo sempre alto l’interesse”. In La Piave non c’è alcuna visione della guerra nel suo insieme (da lettori curiosi ci chiediamo come l’Italia sia diventata unita all’inizio del XVIII secolo e come possano esistere certe tecnologie); il racconto si concentra nel dettaglio su due protagonisti, il soldato Agostino Stefani e il Tenente Giuseppe Olivi, pilota di Ansaldo AS25, che vengono seguiti passo a passo per alcuni giorni di combattimenti.

Non viene risparmiato nulla delle sofferenze e dei dubbi dei due, e vengono ben mostrati tutti gli orrori della guerra di trincea, tra eroismi e meschinità.

Giudizio: buono, ma va detto che sarebbe stato buono anche come racconto di stampo storico ambientato durante la Grande Guerra, senza elementi steampunk.

martedì 11 febbraio 2014

La Macchina Insurrezionale

Visto che questo fine settimana assolutamente non sono uscito per berebirra o per ascoltare band metal finniche, ho avuto modo di leggere, in tutta sobrietà, La Macchina Insurrezionale di Alessandro Forlani, già Premio Urania con i Senza-Tempo, che avevo recensito poco tempo fa.

Il racconto è ambientato a Trieste, nel 1849.

E già questo mi basta per metterlo nella Top Ten della settimana.

Ma ci sono anche aeronavi, robot e congiure, che non fanno mai male.

Daniele Caravà, Oberleutnant dell’Esercito Austriaco, in accordo con Radetzky, vuole scatenare una rivolta a Trieste, allo scopo di far uscire allo scoperto la misteriosa Macchina Insurrezionale, velivolo sempre presente nelle numerose insurrezioni del ’48 e loro probabile istigatore.

Il Caravà riuscirà nel suo scopo, ma le cose non andranno proprio come previsto. Ci sono troppi interessi in gioco attorno a una macchina capace di scatenare rivolte…

La storia regge, anche se forse il finale è troppo affrettato per essere apprezzato pienamente. Ritroviamo numerosi elementi che ricorrono nei racconti del Forlani: le sue curiose creazioni steampunk (presenti praticamente in ogni suo racconto), il Lombardo Veneto sotto il dominio austriaco (ANU B), addirittura compare un riferimento agli alieni Seleniti (Venite Invademus, Clara Hörbiger).

Anche la prosa è quella tipica del Forlani, anche se questa volta, contrariamente a molti suoi scritti precedenti, non sono dovuto ricorrere nemmeno una volta al vocabolario… quindi o ho imparato io un po’ d’Italijanski Jezik o l’autore non si è sforzato come al solito.

Giudizio: ottimo, ma sappiate che il voto è offuscato dal fatto che c’è Trieste.

domenica 9 febbraio 2014

Film della serata: L'Invasione degli Astromostri

Metti una sera, si vuole vedere un film.

Di fantascienza.

Che abbia: astronavi, esplorazioni interplanetarie, cloni, civiltà aliene, una multinazionale dai loschi fini, battaglie, un genio incompreso, un amore contrastato, dischi volanti, devastazioni, belle donne e misteri.

E Godzilla.

E visto che Godzilla non ci basta, vogliamo anche altri due Kaiju.

Che film andiamo a vedere? Che film può accontentare i nostri gusti esigenti?


Guardate pure un po’ di filmati Youtube – e concorderete con me che non si poteva fare una scelta migliore.




giovedì 30 gennaio 2014

Operazione Tifone: mini recensione


Nelle fredde e desolate notti invernali finlandesi non resta molto da fare se non leggere. O bere birra. Questa sera ho scelto la lettura: Operazione Tifone di Diego Bortolozzo.


Il racconto è ambientato durante una Seconda Guerra Mondiale alternativa, dove le armi e i mezzi delle truppe sono alimentati da caldaie a vapore. Si seguono le vicende del colonnello Claus Schenk von Stauffenberg, durante la campagna di Russia prima e in Germania poi. Von Stauffenberg, torturato dalle SS per aver fallito la conquista della Russia, decide di organizzare un attentato contro il Fuhrer.

Von Stauffenberg è un personaggio realmente esistito, era la mente dietro l’Operazione Valchiria che avrebbe dovuto eliminare Hitler nel 1944. È quello interpretato da Tom Cruise nel film Operazione Valchiria, per intenderci.

È quel von Stauffenberg che gli sceneggiatori del film hanno dovuto ridimensionare, perché se avessero riportato fedelmente quanto tosto era, gli spettatori non avrebbero preso seriamente il personaggio. Non è quindi uno facile da gestire.

E forse la pecca maggiore del racconto sta nel non essere entrati nel vivo di un simile personaggio e nell’averlo sfruttato appieno.

Quello che invece si apprezza molto del racconto è la narrazione degli scontri, che son ben inquadrati sia a livello di truppa sia negli esiti generali della guerra. Il Bortolozzo passa con disinvoltura dalla narrazione delle gesta dei singoli soldati al quadro generale internazionale, mantenendo sempre alto l’interesse.

Giudizio: buono, ma avrebbe meritato una lunghezza e un approfondimento maggiore.

venerdì 24 gennaio 2014

I Robot di La Marmora: piccola recensione

Dopo Punto Nemo di Domenico Attianese, recensiamo oggi un altro racconto di un autore autoprodotto, I Robotdi La Marmora di Alessandro Girola, storia appartenente al progetto narrativo Risorgimento di Tenebra.
La storia è ambientata in un 1800 alternativo nel quale l’umanità è entrata in contatto con gli alieni. I Nekton, precipitati sulla Terra nel 1864, si sono divisi in due fazioni: quella del Gene Sovrano alleata degli Asburgo, mentre la fazione (minoritaria) della Meccanica Evolutiva decise di sostenere il neonato Regno d’Italia.

Premetto subito che io, essendo delle Vecchie Province, tifo automaticamente per gli Asburgo, mentre i protagonisti del racconto sono degli eroi di guerra italiani. Vi dò però la mia parola che questo non ha influenzato la recensione. Sul serio.
Protagonisti del racconto sono, come dicevo, degli eroi italiani, piloti di Giganti da combattimento, costruiti usando le avanzate conoscenze Nekton, e impegnati contro gli orrori genetici messi in campo dagli austriaci (mi domando come mai ogni minimo risultato di ingegneria genetica viene sempre additato come un orrore, soprattutto se a farlo sono i nemici, ma non è questo il luogo di discussione).

Non aggiungo altro sulla trama (se vi interessa, leggetevelo), dico solo che c’è un’emozionante battaglia a bordo di una balena-dirigibile, vari misteri irrisolti e tanta azione. I personaggi non brillano per profondità, ma nello spazio breve del racconto si è preferito dare spazio all'azione.

L’autore dichiara subito qual è l’immaginario dal quale ha preso ispirazione: i cartoni animati di robotoni giganti, il film Pacific Rim e il Ciclo dell’Invasione del Turtledove. Pare dimenticarsi di citare Leviathan di Scott Westerfeld nel quale senza paura è andato a cacciare e riportare indietro la balena volante e le fazioni in gioco (biologia vs meccanica). Ma non gliene faccio una colpa, lo steampunk vive di questi “prestiti”.

È una colpa molto più grave aver messo gli Asburgo come cattivi… ma questo non influenza la recensione, ovvio.

Mi sono trovato un po’ male con la descrizione dei robot. Dovrebbero rubare la scena a… tutto il resto, eppure sono poco descritti e non ci si riesce a fare un’idea della loro estetica. Sono automi ottocenteschi con rivetti, molle e ingranaggi? Sono robotoni cromati in pieno stile dieselpunk? Sono costrutti ipertecnologici alieni? Sono tutte queste cose assieme? E dove finisce una cosa e comincia l’altra? Penso che se qualcuno mette assieme, sia ingegneristicamente che letterariamente, due culture (e quindi due stili, estetiche, tecnologie) aliene tra di loro, allora la cosa si deve vedere nel racconto, si devono vedere i punti di sutura tra le diverse tecnologie. Per come vengono descritti, i robot del Girola potrebbero trovare posto in qualsiasi epoca, e per tanto risultano abbastanza anonimi.

Purtroppo.



domenica 19 gennaio 2014

Punto Nemo: Nautilus avanti a tutto Cthulhu!

Il Capitano Nemo, a bordo del suo Nautilus, raggiunge Providence allo scopo di impedire l’arrivo dei Grandi Antichi nel nostro mondo.

E già per solo per aver messo nella stessa storia Verne e Lovecraft, merita interessarsi al racconto Punto Nemo scritto (e autopubblicato) da Domenico Attianese. Se non altro per vedere come vengono messi assieme due universi narrativi, entrambi capostipiti di interi generi letterari (Verne per lo steampunk) o di mitologie horror (Loveraft).

Qualcosa del genere...

Poi uno legge il racconto, e lo scenario appare chiaro.

Punto Nemo è ambientato ai giorni nostri (o forse in un futuro molto vicino), il Capitano Nemo è il discendente del primo comandante del Nautilus e appare anche un erede del nostro Howard P. Lovecraft.
Niente XIX secolo o retrofuturismo, quindi, anche se l’autore nell’introduzione dice di aver dato una spruzzata di steampunk alla storia… ma deve essere stata una cosa molto leggera perché non si nota nemmeno.

Il problema principale di questo racconto è che i Grandi Antichi, e i mostri dagoniti che li venerano, non fanno per niente paura. Nello stesso momento in cui i protagonisti vanno in giro a sparare ai mostri lovecraftiani si perdere completamente il senso di orrore cosmico che dovrebbe accompagnare simili creature, rendendole troppo concrete. Non è una colpa dell’autore, che comunque si propone con una scrittura scorrevole, anche se talvolta appesantita da metafore un po’ barocche. È proprio colpa di Cthulhu&company, che ormai stanno iniziando a perdere la loro carica orrorifica.

Anche perché, diciamoci la verità, dal momento che vediamo questo:


Cthulhu non può più fare paura.

È lo stesso fenomeno che in passato aveva colpito Babbo Natale. La creatura originale delle tradizioni nordiche era un mostro che divorava vivi i bambini cattivi… e nel corso dei secoli si è trasformato in un ciccione vestito di rosso che fa la pubblicità alla Coca-Cola.



Cose che capitano.

Consiglio comunque questo agile racconto a chi non vuole perdersi nulla dei miti Lovecraftiani, o a chi come me piacciono questi mash-up letterari. Non è steampunk, sia ben chiaro, ma lo spirito è quello.

lunedì 6 gennaio 2014

I Senza-Tempo: recensione

Qualche mese fa ho postato su Facebook, sotto forma di Nota, la seguente recensione di I Senza-Tempo di Alessandro Forlani, che riporto qui con qualche legger correzione. I Senza-Tempo non è un romanzo propriamente Steampunk, ma interessante per la maniera con la quale tratta il tema del Passato.
Monostatos è un Senza-Tempo, negromante capace di piegare e modificare il Tempo a sua volontà. Dopo aver dormito per secoli, si risveglia nello scantinato di una scuola e inizia a nutrirsi degli scolaretti ivi presenti. Solo tre di loro si salvano, il biondo Rommel, in nerd Daniele e Nausicaa. Nel resto del romanzo seguiamo a distanza di decenni la piega che ha preso la vita dei tre superstiti, e il loro incontro finale con Monostatos.

Seguono spoilers.

Le vicende dei quattro personaggi principali (oltre ai tre superstiti c'è anche una fotografa di guerra che ha fatto carriera documentando la strage alla scuola), assieme a quelle di una manciata di comprimari, sono sufficienti per toccare un buon numero di tematiche, dalla rapacità dei giornalisti ai giovani disoccupati passando per il voyeurismo e il destino dell’università. Forse anche troppo per un romanzo solo, e infatti talvolta sorge la curiosità (non soddisfatta) di approfondire certe tematiche.

Non nascondo che tifavo per Monostatos. Sebbene sia “brutto, sporco e cattivo”, almeno è puro, nel senso che non è stato contaminato dal mondo moderno, come lo sono state le vite dei tre superstiti o gli altri senza-tempo. A modo suo è portatore coerente di un’estetica e di uno stile di vita che prevalgono su quelli moderni, o meglio sulla loro assenza. Non che faccia molto, a parte mangiare e defecare: il suo unico interesse è vivere, consumando i giovani e le risorse energetiche del mondo, ma siamo forse noi, come società, diversi?

Il modo in cui Monostatos distorce la realtà trasformando gli oggetti nelle loro versioni storiche precedenti si avvicina alla riflessione steampunk sulla tecnologia moderna, vista come semplice cosmetica applicata a strumenti i cui usi sono alla fine sempre gli stessi e decisi sempre dalle stesse persone.

Veniamo alle note negative.
Il romanzo è breve. Non mi faccio ingannare dal fatto che racconti precedenti dell’autore sono stati retconnessi con I Senza-Tempo: il romanzo finisce appena a pagina 119, seguito da altri racconti dell’autore (e da altri due racconti di altri autori).

Le atrocità commesse da Monostatos sono numerose, ma non hanno un grande impatto sul lettore; ad esempio, Monostatos spezza il collo di una bambina e la cosa viene risolta con una riga abbastanza neutra. Le sue vittime vanno e vengono tanto rapidamente e muoiono in maniera talmente anonima che non c’è tempo per sviluppare alcuna empatia con loro. Uno dei protagonisti muore e sincerante non ne ho sentito la minima mancanza né il minimo dispiacere.
E, infine, certe scene d’azione (tipo l’assalto degli archiburoboti a Rommel) mi sono sembrate troppo statiche. Sarà questione di gusti.

È fantascienza? Secondo me no, anche se probabilmente nelle pieghe della fisica quantistica e tra i groppi delle superstringhe si trova qualcosa che possa giustificare l’esistenza di un Senza-Tempo. Il fatto, ribadito dall’autore, che la fisica moderna abbia molto in comune con l’antica negromanzia ci riporta al concetto che grattando la superficie del mondo moderno, le idee del passato (e i suoi personaggi) saltano sempre fuori. Di solito a questo punto la gente inizia a parlare della crisi della fantascienza moderna e a lamentarsi della pubblicazione di questo romanzo su Urania. Io, più modestamente, alzo le spalle e me ne frego. In fondo i costrutti cadaverici di Monostatos non sono più improbabili di AI post-umane o cunicoli spaziali, però almeno sono molto più fighi da vedere.
Fin qui la mia nota/recensione. Su internet l'autore ne deve aver lette di peggiori, tanto da aver pubblicato sul suo blog un post dal titolo "I Senza-Tempo": argomenti civili, allo scopo di affrontare alcune critiche riguardanti supposti elementi filonazisti presenti nel romanzo.

Il post e la breve discussione che ne è seguita sul blog sono abbastanza interessanti e ve ne consiglio la lettura.

Nello stesso post l'autore mi ha anche bacchettato:
 Qualcuno in questa scelta ha interpretato una resa, l’affermazione di una sconfitta: la "gioventù che da sola non può farcela", piuttosto, è Daniele; colpevole per tutto il romanzo di un odioso menefreghismo (perciò l'ho condannato alla mannaia dei Senza-Tempo, e ho scelto di raccontarne la morte con la beckettiana indifferenza per la dipartita di Nagg in Finale di Partita - questo a chi ha osservato che “… le vittime di Monostatos vanno e vengono tanto rapidamente, e muoiono in maniera talmente anonima, che non c’è tempo per sviluppare alcuna empatia con loro. Uno dei protagonisti muore e sinceramente non ne ho sentito la minima mancanza né il minimo dispiacere…”).
Piuttosto mi è piaciuto leggere, nel saggio Com'è facile scrivere difficile dello stesso Forlani, queste righe dedicate al tema del cattivo, dove viene citato Monostatos per il quale, come avevo già detto, ho tifato per tutto il romanzo:
Attenzione ad un errore che commettono tutti (al punto che non si sa, se è davvero un errore): molto spesso l'Antagonista ci riesce di tale fascino, forza e carattere da oscurare l'Eroe e i valori che rappresenta, e i temi “positivi” che gli abbiamo affidato.
Sono convinto che i fan di Darth Vader surclassino in numero quelli di Skywalker (intendo: se non sapessimo dei precedenti...); per Cthulhu, alle elezioni politiche, sarebbe un plebiscito. A volte il pericolo non è solo “artistico”: in una recensione ai Senza -Tempo, nell'aprile 2013, il blogger Iguana Joe mi avvertiva di questo fatto:
Monostatos è tanto figo, troppo probabilmente; tanto che ruba la scena a quello che mi è parso di capire fosse il cuore “politico” del romanzo.
D'altra parte è molto meglio correre questo rischio che scrivere di Antagonisti che risultino macchiette.

sabato 4 gennaio 2014

A Conspiracy of Alchemists: recensione

Come promesso un po' di tempo fa, ecco una mia breve recensione del romanzo A Conspiracy of Alchemists di Liesel Schwarz, primo volume de "The Chronicles of Light and Shadow".

La protagonista di questo primo romanzo della scrittrice è Eleanor Chance, giovane donna e unica pilota di dirigibile del gentil sesso, le cui avventure sono ambientate in un inizio XX secolo alternativo. Nel mondo di Eleanor (Elle per gli amici e per noi lettori), infatti, assieme agli esseri umani convivono creature magiche appartenenti all'Ombra.

La trama in breve:
Elle viene incaricata da Marsh Greychester di trasportare un misterioso oggetto da Parigi all'Inghilterra, missione nella quale fallisce in quanto l'oggetto le viene sottratto dall'alchimista Sir Eustace Abercrombie. Suo padre viene poi rapito e lei si mette alla sua ricerca assieme a Marsh, che investiga su una misteriosa congiura di alchimisti. I due fanno una romantica tappa a Venezia e finiscono a Istanbul per lo scontro finale con il cattivo di turno.

Non è il mio riassunto della trama a essere confuso, è proprio fatta così la storia.

L'autrice sembra divertirsi a tirare fuori quanti più elementi possibile, in una continua invenzione di situazioni e personaggi che dovrebbe meravigliare il lettore ma che alla lunga lo sfinisce. Tutti gli elementi vengono presentati per il tempo necessario richiesto dalla trama, per poi sparire nel dimenticatoio, senza la minima elaborazione di come potrebbe veramente essere un mondo contenente tutte quegli elementi soprannaturali. Scienziati, alchimisti, fate, templari, vampiri, viaggio onirici, elfi, e quant'altro la fantasia dell'autrice ha deciso di mettere dentro. L'Ombra è uno scatolone dentro il quale la Schwarz mette un po' di tutto: i cattivi, creature fatate, cattive abitudini quali il fumo e l'alcol (veramente). Non necessariamente cose negative, ma anche solo misteriose o anomali, lasciando perplesso il lettore su cosa effettivamente essa sia.

La protagonista è forse quello che funziona meno di tutto. Dovrebbe essere una vera dura, ma si comporta come un'adolescente capricciosa e testarda, che passa come niente dalle lacrime alla gioia.
Gli eventi semplicemente accadono attorno a lei. È un personaggio chiave: è un Oracolo, è figlia dell'inventore del primo girocottero, è un'aviatrice. Purtroppo il personaggio non viene determinato da quello che fa, ma da quello che le succede. Marsh Greychester invece non è nulla di più di un James Bond seduttore. Il rapporto tra i due va avanti con sentimenti altalenanti, ma finisce in maniera estremamente prevedibile.

Mentre i protagonisti sollevano alcune perplessità, va detto che i personaggi più riusciti sono quelli secondari: uno stregone e il suo negozio di cose strane, una vampira che va in vacanza sui Carpazi, una strega che si nutre della gioventù altrui, un satiro che con la sua famiglia gestisce una casa sicura per personaggi dell'Ombra in fuga. Tramite questi e altri personaggi secondari l'autrice riesce a rendere una certa idea di un mondo nel quale Luce e Ombra convivono fianco a fianco...

Insomma, una lettura che va giù tranquilla come acqua di rubinetto, ma che non riesce a liberarsi dai cliché e da una eccessiva voglia di riempire per forza di cose meravigliose il suo universo narrativo.